ESERCITAZIONI METRICHE |
Luigi Petruzzelli, 1997 - Distribuzione libera per scopo non commerciale, a patto che sia citato l'autore.
Introduzione | |||||
Rime idiote | Guzziche | Epitaffio | La sera del dì di festa | 21/12/1985 | Peperonata |
Ode alla Zuppa di Pesce | |||||
Fritto misto | Era una notte | Desiderio di studente | In matrimonio della Pellegrino | Il Marazzuccio vien dalla campagna | |
Un furto riuscito | Sete | Ad Allievi su Uncle Charles | Ad una professoressa | ||
La ballata dei pazzoidi | Proverbi | Il brindisi | Amor, che il core | ||
La ballata del Fernando | Canto di lode | Canto a due voci | La ballata del Giraflippo | ||
Per le elezioni | Elide cameriera | Burk | Ai Cuassesi | ||
Bella bruna | Qualche osteria | ||||
Rime pretenziose | Seriose | Entropy | Periodicità | All'ombra di Titano | Le rive dell'infinito |
Alla supernova | Davanti a un quadro di Albert Lambert | Lorelei | Agli Israeliani | ||
In questa calda e profumata sera | |||||
Avventurose | La torre sull'orlo del tempo | The tower on the brink of time | La ballata dell'impiccato | Il viandante | |
La cervogia di Gonfalòr | |||||
Dedicate | Dopo la maturità | Cartolina a Elide | Au retour de la visite d'Instruction | A Raffaella | |
Lettera a Elide | A Laura | A Stefania | Cartolina da Roma | ||
Compleanno di Davide | Per il matrimonio di Alessandra | Ad Anna | |||
Rime massacrate | Il sabba del villaggio | Quanto più m'avvicino | Lines written near Uncle Charles | Novembre | |
L'ha detta | La cerca di Iranon | Già è finito | |||
Rime scopiazzate | Traduzioni da "The Lord of the Rings" | Incantesimo | Beren e Tinùviel | La leggenda di Aragorn | La canzone di Durin |
Earendil | La canzone di Bilbo | Amroth | La canzone di Galadriel | ||
Sparse | La ballata dell'Antico Marinaio | La belle dame sans merci | |||
Rime in cocci | Inno a Morfeo | Scura è la notte | Errore | I Sovrani delle Stelle | |
Sinfonia fantastica | Buon Natale ad Anna | ||||
Rime disperse | Elenco |
INTRODUZIONE per la versione Internet
(L'ho scritta nel 1996, adesso potrei volerla modificare... ma la lascio così lo stesso!)
La state leggendo? Peggio per voi! Che v’importa di ciò che uno scribacchino ha da dire su quel che compose? Sugli anni che sono trascorsi, sul tempo passato leggendo, passato vergando in fretta qualche rima che spesso non significa nulla neppure per lui, passato, qualche volta, pensando? Sui giorni, sempre uguali e sempre diversi, sull’oggi che è uguale a ieri, e che sarà uguale al domani, senonché avrà qualche speranza in meno e qualche capello bianco in più? Finché, a un’ora di un giorno di un anno uguali a tutti gli altri, l’Oste gli presenterà il conto, ed egli s’accorgerà di non aver nulla con cui pagare, e rimpiangerà tutte le portate che ha lasciato nel piatto? Ma va beh, visto che state leggendo... Contenti voi!... vi racconterò qualcosa su quel che troverete in questi fogli.
Nella versione su carta troverete qui tutto quel che scrissi in versi dall’inizio (il 1984) al 1996). Tutto: quel che è meno brutto e quel che è più brutto, quel che all’epoca mi appariva completo e quel che è solo un frammento, quel che ho scritto perché volevo scrivere e quel che ho scritto perché dovevo scrivere. Beh, forse proprio tutto no: molto è stato smarrito, specie quelle quattro o quattordici righe usate come biglietto d’auguri in più d’una occasione, o quelle canzoni improvvisate con una buona compagnia e qualche buon fiasco di vino. E molto è stato distrutto: ci sono cose che, per un motivo o per l’altro, non ha diritto di leggere neppure chi le ha scritte. Naturalmente, le opere migliori sono quelle che volevo scrivere, ma non ho mai trovato il tempo di buttar giù...:-) Mancano inoltre quei versacci raccolti sotto il titolo di “Rime su un tovagliolo di carta”; quando, fra dieci anni, le avrò finite, i più masochisti potranno divertirsi a leggerle.
Nella versione Internet... no, per ora non trovate tutto. Vedremo in futuro.
Com’è diviso il libro? I versi sono raccolti in sezioni e, all’interno di queste, ordinati cronologicamente. La numerazione è invece dalla prima composizione riportata nel libro all’ultima. Contenuto delle sezioni:
Ho riportato tutto come nella versione originale, anche se spesso ho avuto la tentazione di rendere meno peggio qualche verso. Così qui troverete anche degli errori d’epoca. Nella versione su carta ho mantenuto anche le note originali, permettendomi però di aggiungerne, quando lo reputavo necessario, di nuove. Quando possibile, ho recuperato la data di composizione e varianti esistenti in più manoscritti. Il tempo di composizione? Pochissimo: salvo rarissime eccezioni, si tratta di al massimo un paio d’ore. Quello che scrivo è brutto, e perderci su dei giorni non lo rende certo più bello. E poi, dopo aver scritto la bozza di qualcosa, il rileggerla mi stufa. Per questo motivo, non conosco a memoria pressoché nulla di quanto ho scritto: tutto tempo perso. Né sono in grado di leggere ad alta voce questi versi: obbrobrio e raccapriccio! Del resto, un compositore di musica non deve essere un cantante lirico, e un direttore d’orchestra può tranquillamente essere stonato.
Nella versione su carta ho riportato anche qualche immagine dei manoscritti, e un po’ di vignette di Davide (altro amico) dell’epoca del Liceo. Qui non le trovate. Va beh, vi ho già fatto perdere abbastanza tempo con queste stupidate. Adesso, se ancora ne avete voglia, perdetene di più con altre.
Luigi Petruzzelli, 26 Dicembre 1996 e 8 Giugno 1997.
RIME IDIOTE - GUZZICHE
O piatto prelibato, dai cui fumi viene ispirato ogni gentil palato, i nostri pranzi a volte tu enallumi ma questo evento, ahinoi, è talmente raro... Narraci dunque come sei creato, delle cicale, e del calamaro, di scampi e vongole, e del buon giambotto, e tosto ti preparerem per otto. Ma se non siam per caso ottimi cuochi e farti non possiamo qual vogliamo in buoni ristoranti andremo (pochi!) per te mangiare, allor ben cucinato. Di vini deliziosi ti annaffiamo: vernaccia, vermentino, e ancor pigato, e buon verdicchio, che il bicchier ben riempia; giammai sul tavol brilli l’acqua empia. Poi finalmente dopo molte ore finiam d’assaporarti, o mia pietanza! Prendiamo un dolce, e infine un buon liquore. Del dolce tuo profum nulla più resta, e ancora ci sovvien la rimembranza: gaio è il ricordo, ma la realtà mesta. All’altro tavol Guzzi l’ingozzone ne ha trangugiato mezzo pentolone.
1986-04-05
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RIME IDIOTE - FRITTO MISTO
Voce: Signori miei, vi voglio raccontare lo strano fatto che accadde l’altroieri: i professor si vennero a trovare ad un congresso inver d’alti pensieri. Ma per le otto il loro seminario si era concluso, e per ispirazione d’un luminar seguace di Lucullo tosto il congresso diventò un cenone. Così mangiarono innumeri portate, con abbondante vino e con liquori; e pria che l’undici fossero scoccate tutti cantarono, a voci alterne e in cori: Uno: “Colleghi miei, mirate questa coppa, il rosso vin nel limpido cristallo, e mentre il vostro calice levate brindiamo ad un anello, a un corpo e a un gruppo!” Tutti: “Evviva dunque il campo, e il gruppo sia normale! Trasforma ognor l’A-modulo in spazio vettoriale.” Uno: “Amici miei, ascoltatemi: io brindo all’Ideale! E se non è bilatero forse di meno vale?” Tutti: “Libiamo per le quadriche, laudato l’integrale! Noi per il Gran Topologo vuotiam questo boccale.” Voce: Come quei ch’è con lena affannata per troppo di mascelle manducare un’orrida vecchiaccia s’alza e guata, e subito comincia a declamare: Una: “Colleghi miei, dei fisici non voglio dire male: abbasso allor la chimica, scienza sperimentale.” Tutti: “Viva la matematica, e Gauss, e il differenziale! Per non tenerlo vuoto riempiam questo boccale.” Uno: “Io il mio bicchiere riempio di prelibato Porto. E chi con me non beve cada di schianto morto!” Tutti: “Insieme brinderemo per Riemann e Bourbaki; e prima del mattino sarem tutti ubriachi!”
1987-05-22
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Gli zapimpini saltellando vanno come a li carciofini spina adduce; onde lo sguardo della rapa truce nel nostro beveron fa grande danno. Come color che panozzoni fanno mentre lo rombo sulla griglia abbruce e la patata ben rossigna luce, così la Pina mia mi reca affanno. E saltellando sull’erbetta lieto lo crapognotto va ingozzando i porci, mentre le oche iniziano a nitrire; quindi se di buon cibo vuoi riempire lo ventre tuo, hai da mangiar li sorci, e sul divano star svaccato e quieto.
1992-06-26
[Va beh... ho fatto anche questo! Se qualcuno è capace di trovare un senso in questa burchiellata, me lo faccia sapere.]
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Tre giorni orsono mi giunse un invito per un felice e giocondo convito: era il banchetto di certi tipi che ancor s’aggirano nei municipi. Così , curioso per la trovata, volli anch’io unirmi alla lieta brigata. Tra un piatto e l’altro, tra un fiasco e un sorso, un tal Girella fè questo discorso: “Cari compagni, l’ultima volta possiam mangiare: si è giunti a una svolta. Mangiammo tranquilli per molti anni, senza pensar né a galera né a danni; or se vogliamo ancora pappare un qualche cosa dobbiamo cambiare. Per noi son chiusi gli enti locali, che dobbiam fare? Son giunti i rivali... Cari compagni, eravam socialisti, ora chiamiamoci almen riformisti!” Ed ecco, in quella disse Arlecchino, mezzo ingozzato da lepre e tacchino: “Perchè crucciarci? Salta la quaglia; possiamo iscriverci a Forza Itaglia!”
1994-04-10
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O bella bruna dai capelli biondi, un dì vidi i tuoi occhi di smeraldo, le dritte gambe, ed i bei seni tondi, ed apprezzai quel tuo sorriso caldo. Sorriso caldo, sulla tua dentiera; togliesti poi le lenti colorate, e vidi che di vetro un occhio era. Nel volger basse e pensierose occhiate ti domandai: “Ma quello è silicone?” “O no, m’offendi! porto un vonderbrasso. E ancora porto, altra precauzione, queste mutande contro il culo basso”. Slungai la mano, nel cercar sostegno, e si svitò la tua gamba di legno.
1995-10-07? (09-30? 45 min.)
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RIME PRETENZIOSE - SERIOSE
The stars will fall, the sun’ll be cold, and everything will surely die; in darkness then will Nature lie when Stars and Sun and Moon are old.
1986-02-06
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Mira l’azzurro cielo e i verdi colli, Odi la melodia degli usignoli; Rami novelli offron nuovi fiori. Tu, in un castello antico, tra le torri, Empi di stelle gli occhi, e sei felice. E il tempo passa, né si può fermare. Vedi la bianca luna tra le fosse, Illumina d’argento e d’or le cose. Tu in neri cimiter trascorri l’ore; Attendi, e la tua morte ti rincorre.
1986-03-15
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La nebbia oro e scarlatta si è infine diradata: ed ecco che in parata le lune sfilan già. Nel cielo di ametista brilla lontano un astro, che prima del disastro fu noto come Sol. Sotto una semisfera d’acciaio sta il colono, e triste ascolta il suono di musiche d’un dì. Tra polveri ghiacciate scorge una nave nera, che al fare della sera vola verso gli anel.
1986-07-09
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Lassù, nascosta in mezzo allo splendore di nebulose, di galassie ed astri, scintilla in questo cosmico fulgore brilla una stella. Eoni che nessuno può contare ha offerto all’universo il suo calore; irradia le sue luci estreme, amare: giunta è la fine. Ed ora compie un disperato atto per non passare quieta nell’oblio: grandiosa nello spazio esterrefatto splende una fiamma. Millenni dopo, mentre l’aria imbruna stanco un viandante volge il guardo al cielo; scorge la stella, e triste e muta una lacrima scende.
1987-03-31
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RIME PRETENZIOSE - AVVENTUROSE
Ed Elbereth entrò in quel giardino arcano. La porta era d’oro e d’avorio, racchiusa in un arco d’argento; intarsi di noce e ciliegio, d’iridio e diamanti il battente. Là non occorrevano chiavi, ma un mostro ne era il guardiano: un demone di fuoco. Cantando sulla cetra antica ed incantata commosse l’orrendo custode. Cantò di guerrieri, di maghi, di regni perduti, d’amore, di morte, d’immensi tesori. Cantava la pace, l’oblio, la quiete di luoghi lontani; e la sua magica cetra con corde di cromo brillante rendeva più dolce quel canto. La melodia fluiva, cresceva e s’abbassava, creava dei mondi di suono eterei e cristallini. “Ah Gilthonièl, fanùilos, o mènel àglar èlenath! Sie linnathòn nec fàneis, ne sìlivren tà mìriel”. Cantava in alto elfico, sopra una scala dorica, una canzone ellenica già nota pria d’Atlantide. La melodia saliva, la musica cresceva, le rapide sue dita correvan sulle corde. Su un la bemolle acuto finì la sua canzone; e il grande portale s’aprì. Creato da antichi sovrani splendeva il giardino incantato; verde smeraldo era il cielo, limpida l’aria, gli zefiri freschi. Lontano, perduta tra l’erbe giaceva un’oscura foresta, oscura e misteriosa. Tra alberi di strana foggia s’alzavano rami scarlatti, viola, oro, cremisi, azzurri: inesplorata landa, confine orinetale del mondo. Cascate, ruscelli, torrenti, e rutilanti acque; fiori multicolori, dal cuore ingemmato e cangiante; steli policromi e serici, profumi ineffabili e musica, che il sol nel suo cammino creava con raggi purpurei. Elbereth andò verso est, e cavalcò per giorni tra bassi cespugli spinosi, tra alberi immensi, per vaste pianure. La luce cambiava il suo mondo: ombre di fuoco tra foglie cerulee, colori mai visti o pensati. E vide palazzi d’alabastro, con torri slanciate e bizzarre; vestigia di regni perduti, rovine d’un tempo passato. E cavalcò per giorni, tra stagni e nebbiose paludi, tra grigi vapori, su infidi sentieri. La spada brillava corrusca tra torme d’orrori nascosti; le rune splendevan, la lama rossigna fu pregna di sangue nerastro. E vide le ombre dei morti, fantasmi di re maledetti: nel buio ammiccavan lucenti, argentei e grigi e dorati. E cavalcò per giorni, giungendo all’antica foresta. Tra spiriti silvestri che in essa dimoravan cantò le più allegre canzoni, retaggio d’un tempo passato. A lungo egli ancor cavalcò, senza mai darsi riposo: e giunse a una verde radura, tra fiori di rubino. Lor dono era l’oblio: tre mesi ivi sostò, senza poter proseguire. Tra dolci profumi, tra candidi lumi felice i dì trascorse; né mai al suo traguardo più volse lo sguardo, stanco di lunghe corse. Ammira il fiume limpido, bevendo il vin di zàffiro; contempla nel ciel le tre lune, la verde, la rossa, l’azzurra; ammira tra gli astri la polvere che forma gli anelli del mondo. Ma tra le acque ormai torbide scorse un nero gorgo: allor si decise a partire, raggiunger la meta fissata. Elbereth andò verso est, e cavalcò per giorni: giunse alla scala d’avorio sui monti di cristallo. Che celestiale musica a un piccolo raggio di luce: il doppio sole all’alba creava per lui sinfonie, e come un’arpa eolia al tocco di un gigante suonò melodie possenti, e lievi, e appassionate. Cavalcò, cavalcò molte notti, fin sulle vewtte più alte, fino all’antica dimora, la torre di gemme sull’orlo del tempo. Si vede da là il mondo intero, qual è, qual è stato e sarà; ma chi solo osa sfiorarla per sempre infelice vivrà. Aprì porte d’oro e d’avorio, passò sotto archi d’argento tra statue di candido marmo: guardò la finestra d’opale e vide, e conobbe, e capì. Richiuse le porte d’argento, discese le scale d’avorio, passò la foresta incantata, le orrende paludi, il giardino. Cantò dunque per il guardiano la triste canzone del mondo. Tornò da dov’era venuto: nessuno lo vide, mai più.
1986-07-02
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I. Se a mezzanotte il tredici di aprile di Westerness vedrete il camposanto un cavalier da triste duolo affranto il suo destino a voi dispiegherà. Io ci passai, mentre pensando erravo, e su una tomba dai bei candidi marmi piegato il vidi, ed era ancora in armi: piangendo di Artemisia il nome alto invocò. “Salute cavaliere, e sorte a te propizia!” Col solito saluto or la mia storia inizia. Fortuna gli auguravo, ma quando l’osservai scorsi sul volto pallido occhi che mai fur gai. Sopra il suo collo immobile v’eran dei segni rossi; poi si girò guardandomi, ed io ver lui mi mossi. “Sorte propizia, dici? Non vedi il mio dolore? Ormai da molti mesi piango il perduto amore”. “Possente cavaliere, racconta, se ti piace, l’orribile sventura che tolto t’ha la pace”. S’alzò allor dalla tomba, guardò pensoso il cielo; poi cominciò a parlare, schiudendo il triste velo. “Rammenti i barbari brev’anni orsono quando c’invasero dai monti a est? Io ed il mio seguito subito andammo là con l’esercito pronti a pugnar. Sentivamo squillare le trombe, le armature brillavano al sole, e le lame lucenti ciascuno far brillare scarlatte già vuole. Già le corde degli archi cantavan: ah, che musica d’arpe e di viole! Ed in tal celestiale concerto i cavalli ed i fanti avanzavan. Or le schiere son giunte a contatto, e tintinnan le spade colpite; sugli scudi risuonan le asce, e già appaion le prime ferite. Così all’alba iniziò la battaglia, proseguì finché il sole fu alto; non si spense neppure al meriggio, né di sera fu stanco l’assalto. Come falce mietuto ha del fieno, come cadon d’autunno le foglie, era tutto coperto il terreno dei soldati di misere spoglie. E ciascuno in quel giorno di gloria soprattutto pensò al proprio onore: ogni piaga vedevi nel petto, dove il ferro trafitto avea il cuore. Un dei nostri tre loro valeva, ma per un che al nemico cadeva tosto cinque il suo posto prendevan, e così piano ci respingevan”. II. “Ben ti comprendo, o triste cavaliere, ed intuisco gli ignoti tuoi tormenti; ma perchè devi porre tra i lamenti la descrizion di sì possenti schiere? Ne ho già sentite tante che più non mi commuovo; continua, per favore, con un racconto...” “...Nuovo? Da quando sulla Terra ha visto il primo uomo la luce di una stella dimmi, che di novello v’è mai nella sventura? L’antica mia canzone sempre diversa dura. Aspetta che ti narri quel che m’accadde poi. V’era un vicin castello...” La voce sua fremette, guardò lontano un bosco; ed un sì triste tono da allor più non conosco. “V’era un vicin castello, e mentre combattevo il suo pensier sì bello scacciare non potevo. Di presso d’un ruscello di maggio un dì giacevo: dalla brughiera brulla m’apparve una fanciulla. Figura perfetta, capelli dorati, veniva su un destriero; mi vede e s’affretta pei flutti argentati verso il vicin maniero. O celestial visione, da un sogno forse uscita! L’avevo appena scorta, l’amavo per la vita. Io presto la cercai là, nel vicin castello; la vidi, la incontrai e amanti diventammo Sembravan le ore minuti soltanto quando con lei io ero; con lei il mio dolore per magico incanto svaniva, e tosto invero. Dolce Artemisia dagli azzurri occhi, dimmi perchè, perchè, per qual sventura batter dovean i tragici rintocchi della campana della mia sciagura? Tale castello era presso il loco ove combatter si dovea tra poco. Ben presto i barbari ci circondarono, le nostre linee così sfondarono. Avanzarono allor sul castello ove insonne Artemisia aspettava; io impotente li vidi attaccarlo e aggredire colei che m’amava. Ella mi fu rapita! Uccisi nemici a decine e raggiunsi il castello alla fine, ma l’orda era fuggita”. III. Sopra il suo volto pallido vi fu un sorriso amaro; negli occhi, invero orribile, apparve un baglior chiaro, come a chi la vendetta da troppo tempo aspetta. Cavò dalla tasca una corda e andò a un vicino noce; la tese sopra un ramo e poi, con triste voce: “Permette, signor, mio?” quasi piangendo chiese, e quindi per il collo all’albero s’appese. Il volto suo sì pallido, il tragico suo aspetto,... Ah, non poteva essere che spirto maledetto! “Lasciate che m’accomodi di questa fune il nodo. Scusate se il parlare flebil sarà in tal modo. Ebbene, amico mio, siete al proseguo pronto?” Con voce mesta e debole continua il suo racconto. “Fuggiano i barbari con Artemisia e là, terribili li vidi a sud. Rinforzi subito tutti cercammo e per il vespero partiti s’è. Li inseguimmo per piane e per valli, tra dimore bruciate e rovine; li inseguimmo per giorni, e accampati li trovammo su verdi colline. Tutti in alto le spade han levato, e le trombe han lanciato la sfida: “Vincitori oppur morti”, han giurato tutti insieme per tale disfida. Si combatte per ore, e ciascuno mostra il meglio del proprio valore; né se già di nemici più d’uno non ha ucciso nessuno si muore. Alla fine rimangon soltanto pochi nostri, e dei loro nessuno; ferma in piedi è Artemisia, e a lei accanto sta uno gnomo malefico e bruno. “Pur ti vedo, Artemisia, mia amata! Alla fine ti ho dunque trovata”. Lei mi guarda con occhi di ghiaccio, di sventura io presago taccio. “Non v’è amore, ma morte e null’altro. Il mio dono è dolore e tormento”; e da un fodero sguaina un pugnale, e in silenzio veloce m’assale. Io la fermo, e lo gnomo malvagio fisso, colto da ignoto presagio. “Tu chi sei, e a Artemisia che accadde?” “Sono un mago, e fedele servivo questo che ora ai miei piedi qui cadde. Io tra poco più non sarò vivo, ma tu ascolta ciò che ora ti dico: costei che ho stregata fia sempre crudele, e mentre qui muoio io te maledico”. Riportammo Artemisia al castello e passarono i giorni, e poi i mesi; ella sempre parlava di morte, e io pazzo decisione terribile presi. Una notte salii sulla torre ove bella qual stella dormiva; io l’amavo, l’amavo pur sempre, e lei era del senno ormai priva. Io la vidi, ed al lume di luna rilucevan dorati i capelli; la baciai, quindi con un pugnale terminai la mia opra fatale. Ed infin con l’identica lama spensi pure la vita mia grama. Da allor sono ogni anno costretto una notte ad appendermi qua; la ricordo, la piango, l’aspetto pur sapendo che mai tornerà”.
1988-01-31
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Il viaggio è quasi al termine, ma ancor romba il motore, mentre gli ugelli fischiano e cantan col mio cuore. La nave già decelera verso il pianeta amato, che ormai da troppi secoli lasciai, ma non ho obliato. Secoli per chi resta, per me soltanto un mese: mi mossi tanto rapido che il Tempo si sospese. Le mie città magnifiche, le torri sì elevate: torri che l’universo sfidavano slanciate. Entro le mura altissime sotto quei cieli chiari vedevi ad ogni angolo palazzi senza pari. Opere d’arte splendide, di gemme ornate, e d’oro: sempre gli artisti opravano, mai paghi del lavoro. Sotto la Torre Eburnea i templi più maestosi muti testimoniavano di epoche gloriose. V’eran giardin verdissimi, dai fiori resi belli, e tutti passeggiavano tra arpisti e menestrelli. Discosto, periferico, sorgea lo spazioporto: e navi vi atterravano, di linea o da diporto. Da là, parecchi secoli prima, iniziò il mio viaggio: dovevo andar sì rapido quale di luce un raggio, per esplorar le stelle e i mondi con coraggio, tornare infine a casa recando il mio messaggio. Casa? Sì, casa un giorno, ma ora non più tale: morta e sepolta, è polvere chi amavo senza uguale. Ora che sono giunto, la cerca mia è compiuta: a ognun potrò cantare la gloria che ho veduta. Come di stelle polvere brillava in ogni dove: gemme multicolori, e nebulose, e nove; comete che vagavano accanto a soli spenti, pianeti che ruotavano attorno ad astri ardenti; spettro nefando e orribile scorsi anche un buco nero, e attorno a un sole ignobile rovine di un impero. Ora che sono sceso, ed ho guardato attorno... Forse è uno scherzo questo, in questo grigio giorno? Oh, occhi miei, traditemi, dite che m’ingannate! Non può, non deve essere. Dite che vi sbagliate! Le mie città magnifiche... Le torri son crollate! Torri che l’Universo sfidarono, slanciate! Le mura rase al suolo, il cielo è cappa grigia, e trovi ad ogni angolo decrepite vestigia. Opere d’arte splendide, un giorno ornate d’ori: ora non ne rimangono né forme né colori. Sotto la Torre Eburnea templi son crollati, e muti testimoniano di tempi ormai passati. Vi son giardini aridi, i fiori son seccati, e sul terren riposano dei liuti fracassati. Secoli dissi? Secoli? Forse millenni, eoni. Che devo far? Che restami? Perirono a milioni? Non so, non posso crederlo. Forse partiron tutti verso migliori lidi, tra quei cosmici flutti. Io me ne andrò ora, subito, riprenderò ad errare; li cercherò dovunque, a costo di viaggiare per sempre: non importami del tempo che trascorre, ché la mia nave rapida come la luce corre. Io lotterò per sempre contro il mio fato avverso, finché non vedrò un giorno finire l’Universo.
1988-04-23
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RIME PRETENZIOSE - DEDICATE
Che posso dir? Non so: pensa e ripensa, Il mio cervello piano va fondendo; Annaspa e affoga in una nebbia densa, O per la birra, o per il sol tremendo !
1993-07-xx
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“AU RETOUR DE LA VISITE D'INSTRUCTION”
“O voi che, vacui gli occhi, vi agitate siccome zombie dentro un cimitero, ebeti larve prive di pensiero, parole lente, stanche, strascicate, le facce che non sembrano assonnate sol perchè Morte par fissino invero, per qual ragione in questo gorgo nero volete naufragar, mi disvelate!” “Carpe dièm, qualcuno un giorno scrisse, e noi cogliemmo l’attimo fuggente; né tra noi alcun come uno zombie visse. Il viaggio inter passammo allegramente tra feste, danze, discoteche, risse: vaghiamo, a contrappasso, senza mente.”
1994-03-24
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Eccomi qui: già è l’una del mattino, e ancora non ho scritto questa burla... cioè... biglietto..., per San Valentino, che strappi ad altri risa, ma a te urla. Vorrei parlar delle tue brune chiome, del viso tuo, degli occhi tuoi di stella; però che strano: non ricordo il nome... Astriflammante? Alessia? Raffaella? Sei tu, ragazza, simile a una rosa, e non v’è rosa bella senza spine; col tempo il petal cade, e giù si posa: solo il pungente stelo avrà alla fine... Perciò la mia passion, fanciulla amata, ti giuro eterna come una fiammata!
“Come, e ti sembrano cose da scrivere per San Valentino? #%&!!#...”. Hai ragione, scusa. Non offenderti: adesso cambiamo qualche verso, e vediamo se riesco a rimediare... Dai, gira pagina!
Eccomi qui: le due son del mattino, e queste righe, cominciate in burla, ti possan giungere a San Valentino, e insieme ad esse ciò che il mio cor urla. Vorrei parlar delle tue brune chiome, del viso tuo, degli occhi tuoi di stella, di te, giovin, che porti il più bel nome, o almen, tale a me sembra: Raffaella... Sei tu, ragazza, simile a una rosa; però che strana rosa, senza spine... e, quando su di te l’occhio si posa, vaga, disperso, in cieli senza fine. Così il mio cuor, dolce fanciulla amata, riscaldi e bruci come una fiammata.
1995-02-14
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Dentro il Palazzo, in sotterranee sale, Esausti ci troviam, pronti al lavoro; Drizziam gli orecchi, udendo per le scale Illuminate già da raggi d’oro Camminar chi rischiarerà il mattino, Aurora ed alba e sole a mezzogiorno. Tu giungi, già annunciata dal Destino Oppur da un fax spedito l’altro giorno. Arrivi, ci saluti, ci sediamo Lieti a scambiar con te qualche sorriso. Attenti nell’impegno procediamo: Un tal convegno parci un paradiso. Restiam, conclusa alfine la riunione, Ad aspettar la verbalizzazione.
1995-10-04 (52 min.)
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Sentii notizia poco fa da un tale Onde per Laura rinverdì l’alloro; La nuova fu per me come uno strale Per cui or a rispondere m’accoro. E concediam che sia come un mattino, Resti ad alcun qual sole a mezzogiorno; Sole mi par un’altra, cui m’inchino, Trepido, e solo aspetto il suo ritorno. Ella si vien, e noi nel cor cantiamo, Felici d’ammirare il suo sorriso; Appare e se ne va, ma pur sappiamo Nessuno resistette al suo bel viso. I fax che annunceranno ogni riunione Ad ella debbon la preparazione.
1995-11-28
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Per il compleanno di Davide, 12 Maggio 1996.
Sono passati, son volati gli anni, sono passati, e andati non so dove. Adesso, che ne ho visti ventinove, chiamo la Vita, e Morte mi risponde. Versione cantata in pizzeria: Sono passati, son passati gli anni, Sono volati, e ancora non so dove. Ora che sono giunto ai ventinove Chiamo la vita, e Morte mi risponde.
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RIME MASSACRATE
La fattucchiera vien dalla palude in sul calar del sole, col suo fascio d’ortiche; e reca in mano lo scatolon di rospi e di serpi, onde, siccome suole, ornare ella si appresta tra breve, giù all’inferno, il suo forcone. Siede con i becchini tra le fosse a scavar la vecchierella, nel luogo dove già biancheggian l’ossa; e novellando vien con grande orrore di quando ai dì di festa ella si ornava, ed ancor buona e bella solea danzar la sera con coloro che uccise quando fu più grandicella. Già tutta l’aria imbruna, torna oscuro il sereno, e tornan l’ombre richiamate dai maghi, al rosseggiar della recente luna. Ora un grido dà segno del demone che viene; ed a quel suon diresti che una è appena morta. Gli assatanati urlando giù nella cripta in frotta, e qua e là azzannando, fanno un lieto romore: e intanto riede dall’umana mensa Red Jack, lo Squartatore, e seco porta rossa la mannaia. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e niuno ormai più tace, odi il piccon scavare, odi la sega del falegnam, che taglia in una chiusa cassa donna a mezzo, e s’attarda, e s’adopra di finir l’opra molto lentamente. Questa di tutte è più gradita notte, piena d’urla e di sangue: diman tristezza e noia recheran l’ore e, se non crepato, nessuno al cimiter farà ritorno. Bambinello ciccioso, cotesto rogo acceso è come un forno di tue carni pieno, forno caldo, e in veleno rosolerai, ormai cadaver reso. Succhia, vampiro mio; sangue soave, annata buona è questa. All’alba partirò; ma la tua festa a me farà venir ferita grave.
1985-12-20
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RIME SCOPIAZZATE - TRADUZIONI DA "THE LORD OF THE RINGS"
Spiacente. Non metto nulla in questa sezione, perchè temo esistano problemi di diritti d'autore. Peccato: alcune traduzioni mi sono venute bene.
RIME SCOPIAZZATE - SPARSE
Per ora (1997-06-08) non ho tempo di trascriverle in formato elettronico. Vedremo in futuro.
RIME IN COCCI
Per ora (1997-06-08) non ho tempo di trascriverle in formato elettronico. Vedremo in futuro.
RIME DISPERSE
Beh, proprio perchè sono "disperse" posso solo darvi una lista dei titoli. Il testo non esiste più (o meglio, non è più in mio possesso).
Parafrasi di Dante sul tema di terza liceo “Quasi-sonetto” per la Armani Elogio della miopia Auguri per Giulia Re Quel mazzolin di fiaschi Siamo la coppia più brilla del mondo Per Monica
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Ultimo aggiornamento 1997-06-01